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"Dolcetto o Balletto?" - La Notte degli Spiriti fra tradizioni celtiche e danze macabre medievali


C’è chi la chiama Halloween, chi Dia de los muertos, chi Festa dei Morti.

In ogni caso si tratta di una festività vecchia di secoli, che affonda le sue radici in epoche ancestrali, quando il rapporto dell’uomo con la vita, e con la morte, in tutti i luoghi del mondo, dall’Irlanda al Sudamerica, era più diretto ed autentico, perchè calato all’interno di una concezione ciclica e non lineare del tempo e del cosmo, dove la morte è solo uno stato intermedio prima della successiva rinascita.

La tradizione ormai globalizzata di Halloween risale allo Samhain (che in gaelico significa “summer’s end”, fine dell’estate) ovvero la celebrazione del Capodanno per l’antico popolo celtico. Nel loro calendario infatti l’anno cominciava il 1° Novembre, giorno che annunciava l’effettivo ritorno dei morti nel mondo dei vivi.

La notte precedente, il 31 ottobre, era considerata un potente e magico momento di transizione: l’estate cedeva il passo all’inverno, si chiudeva la stagione dei raccolti, alla vita, rappresentata dai frutti della bella stagione, seguiva simbolicamente la morte, ovvero la stagione del lavoro, della fatica, del ritiro, non solo dentro casa, al riparo dalle intemperie autunnali, ma anche nella profondità del proprio essere.

Per farlo l’uomo aveva bisogno di spogliarsi e lasciar andare tutti quegli attaccamenti che non permettono più il fluire naturale della vita. Aveva bisogno di scendere simbolicamente negli inferi del proprio io, come Persefone nell’Ade, o come Ishtar nell’Oltretomba, davanti alle sette porte del quale essa lascia simbolicamente una delle sue vesti (da cui la millenaria e fantasticata danza dei sette veli…) per ritrovare la propria essenza prima di manifestarsi nuovamente al mondo, riportandovi la primavera.

In tutte le religioni antiche, del Mediterraneo e non solo, per ri-nascere bisogna prima morire.

Ecco perché in questa speciale notte degli spiriti, delle visioni e degli auspici, vita e morte si sfiorano, il velo che separa i due mondi si assottiglia, tanto da poter essere facilmente oltrepassato, così che le anime dei morti possano far visita ai propri cari ancora in vita. Questi a loro volta li accolgono accendendo candele e fiaccole per indicare loro il cammino e lasciando frutti e fiori su soglie e finestre per ristorarli, o preparando loro un banchetto.

Nel X secolo l’abate benedettino Oddone di Cluny, prendendo spunto anche da questi riti pagani, istituisce la commemorazione dei defunti, fissando la celebrazione nei primi due giorni di Novembre. Nasce così la Festa dei Morti, che si diffonde in tutto l’Occidente Cristiano, mantenendo molte delle antiche tradizioni pagane e dando origine a nuovi costumi regionali. Ecco che in Piemonte la tradizione voleva che dopo aver finito di apparecchiare la tavola per la festa venissero aggiunti dei piatti da lasciare ai defunti, i quali, stanchi del lungo viaggio compiuto per far visita ai propri cari, avevano bisogno di riposarsi. In Val D’Ossola ad esempio vi era l’usanza, dopo aver concluso la cena di rito, di uscire di casa per recarsi al cimitero, lasciando le case vuote e le tavole imbandite, così che gli spiriti dei trapassati potessero ristorarsi in pace. Il suono delle campane indicava poi che la riconciliazione coi defunti era avvenuta e che le famiglie potevano far ritorno a casa. Nel Monferrato era usanza dormire sul bordo del letto in modo da lasciare spazio, per quella notte, anche alle anime dei familiari defunti. In Sicilia invece la festa assumeva caratteri gioiosi, soprattutto per i più piccoli. La tradizione tramandata da mamme e nonne infatti racconta che a portare i doni ai bambini in inverno non fosse Babbo Natale, ma i cari defunti di famiglia, per ringraziarli di essere stati bravi durante l’anno e di averli ricordati con pensieri e preghiere. Di notte i genitori preparavano i pupi di zuccaro, bambole di zucchero riempite con dolci e castagne, che sarebbero poi state nascoste come premio di una “caccia al tesoro”, dopo la quale tutti andavano al cimitero, portando ceri, lumini e fiori freschi per ringraziare i defunti.

In queste notti si accendevano fuochi, candele, lanterne, si vegliava, si mangiava e naturalmente, come in tutte le feste che si rispettino, si danzava. Spesso tutti insieme intorno a un falò, in un semplice girotondo orientato in senso orario come il cammino del sole, mentre i danzatori tenevano in mano delle fiaccole. Tra queste danze la farandola è probabilmente la più antica, legata agli antichi riti agricoli: è la danza del labirinto, con le sue figure a chiocciola e a serpente, caratterizzata da un unico passo base (per lo più saltellato) e accompagnata da flauti e tamburelli. In questa danza il capofila sceglie i cambi di direzione determinando le serpentine e gli intrecci più fantasiosi: annoda e scioglie, fa e disfa, crea e distrugge, come la vita e la morte. Troviamo schemi coreografici simili nel syrtaki greco, nella carola medievale, nella dabke mediorientale, nelle danze irlandesi, segno che le danze popolari, esattamente come le festività e le tradizioni religiose, hanno spesso un’origine antropologica comune.

La farandola è però anche la danza della morte: tutti devono percorrere lo stesso cammino abbandonandosi alla volontà di chi conduce la danza, a simboleggiare l’umanità incatenata che non può che seguire il percorso tracciato, una sorta di viaggio collettivo inesorabile attraverso le esperienze della vita. Da qui deriva il tema iconografico medievale della danza macabra, diffuso in Italia e in Europa tra il Trecento e Quattrocento. In queste raffigurazioni l'idea della morte viene contemplata come un grande ballo a cui tutti, prima o poi, sono invitati a prendere parte, i più potenti, imperatori, papi e principi, così come i contadini e gli artigiani. Una danza inevitabile, di uomini insieme al proprio scheletro, trionfo della morte al cui invito l’individuo non può sottrarsi. Nell'ottica della società del Trecento si tratta di un ammonimento, una sorta di memento mori, un richiamo delle coscienze alla moralità ed alla mortalità, rinforzato da una presenza più diffusa del solito della morte nella vita degli uomini del tempo (pensiamo alla peste nera, che sconvolse l’Italia e l’Europa nel 1348, uccidendo circa 20 milioni di persone). La più antica Danza Macabra è probabilmente quella raffigurata nel Cimitero degli Innocenti a Parigi, sorto nel XII secolo per ospitare i sacerdoti defunti. In Italia ne sono mirabili esempi quella realizzata da Giacomo Borlone de Buschis fra 1484 e 1485 per l'Oratorio dei Disciplini di Clusone (Bergamo) con cavalieri accompagnati dal proprio scheletro, oppure quello della Chiesa di San Vigilio a Pinzolo, in Trentino, eseguito da Simone Baschenis nel 1539 e datato non a caso proprio al 31 ottobre.

Tornando al mondo anglosassone, nel corso dei secoli l’antica festa di Samhain fu trasformata in All Hallow’Eve, ovvero “vigilia” di tutti i Santi, da cui il termine moderno di Halloween, diffusa in Irlanda, Inghilterra e Scozia, terre di rituali druidi e di antichi cerchi di pietra megalitici dalla misteriosa funzione religiosa.

La celebre festa non ha quindi assolutamente nulla di americano, come i più comuni pensano, se non il fatto che nell’Ottocento gli immigranti irlandesi e scozzesi che scappavano dalla Grande Carestia portarono le loro tradizioni di Halloween nel Nord America. Da allora la festività si è evoluta enormemente, perdendo ahimè il suo aspetto sacro e lasciando il posto a celebrazioni svuotate del loro significato religioso e protese verso la commercializzazione sfrenata e il divertimento, spesso con toni lugubri ed orrifici.


Ma ci sono popoli per cui la notte degli spiriti non ha assolutamente nulla di triste. Anzi.

Il popolo messicano, ogni anno dal 28 ottobre al 2 novembre, festeggia il Dia de los Muertos, una festa dedicata ai defunti ma che celebra la vita. In Messico questi sono giorni vivaci e variopinti: le lapidi sono cosparse di decorazioni e fiori, si realizzano altari coloratissimi e teschi zuccherati, bambini e adulti travestiti da scheletri colorati ballano e sfilano per le città celebrando la vita, anzichè la morte. Tale festa trae origine dai rituali delle civiltà precolombiane, Aztechi e Maya, che adoravano la vita dei loro antenati ritenendo che l’ordine cosmico si basasse su un continuo alternarsi di morte e vita. Essi non credevano nel concetto di inferno e paradiso a seconda del comportamento tenuto durante l’esistenza terrena, ma ritenevano che le anime potessero prendere diverse strade a seconda del tipo di trapasso. La morte era quindi vissuta come qualcosa di naturale e inevitabile, un passaggio gioioso da non temere bensì accettare. Quando nel XVI secolo arrivarono i colonizzatori spagnoli, i riti preispanici si fusero con le tradizioni cattoliche europee, dando origine a un sincretismo che, mescolando le varie tradizioni, produsse una festa in cui a differenza di Halloween i defunti, anziché far paura, mettono allegria. C’è persino chi si accampa al cimitero per trascorrere la notte accanto ai propri morti, chi prepara surreali picnic sulle tombe, chi accompagna i festeggiamenti con la musica (chi non ha amato il film della Pixar Coco ?). Qui non c’è timore verso la morte, l’atmosfera è goliardica e colorata e il trapasso è visto come qualcosa di naturale, da accogliere con gioia. Un punto di vista sicuramente insolito e curioso, che ha valso a questa festa la dichiarazione di Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco, in quanto antica espressione culturale che celebra gli antenati, affermando l’identità di un popolo.

Tutte queste tradizioni, antiche e variegate quanto l’essere umano, ci raccontano poi in fondo un bisogno antropologico essenziale. Quello di esorcizzare la morte per meglio accettarla, concependola all’interno di un disegno cosmologico più ampio e per certi versi “confortante”. La danza come metafora del destino e dell’esistenza, le zucche intagliate e illuminate per rischiarare simbolicamente il buio dell’inverno interiore, i dolcetti zuccherati per fugare l’amarezza di qualcosa che naturalmente rifiutiamo ma che inesorabilmente fa parte di noi e del nostro destino, sono semplici esempi della necessità dell’uomo di festeggiare, sempre, anche davanti al momento più tragico. Perché se ciò è fatto in maniera consapevole e col dovuto rispetto, forse la morte può farci meno paura.


Bibliografia:

- Immagini della Danza Macabra nella cultura occidentale dal Medioevo al Novecento, Catalogo dell'esposizione tenutasi a Pinzolo-Cusiano-Caldes, 26 giugno- 13 settembre 1998

- Jean Markale, Halloween. Storia e tradizioni, traduzione di M. E. Giacomelli, Torino, L'Età dell'Acquario, 2005

- G. Bellosi, E. Baldini, Halloween. Nei giorni che i morti ritornano, Torino, Einaudi, 2006

- Bill Price, Celtic Myths, Pocket Essentials,2008

- G. Cricco, F.P. Di Teodoro, Il Cricco di Teodoro. Itinerario nell'arte - Vol.3: Dall'Arte Paleocristiana a Giotto, Zanichelli, 2012

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